Giovanni Adami, reumatologo, ricercatore Università degli studi di Verona spiega quale relazione esiste tra osteoporosi e patologie infiammatorie reumatiche muscoloscheletriche e come può essere gestito il paziente in cui le patologie coesistono.
“L’osteoporosi è una delle comorbilità più diffuse nelle malattie infiammatorie reumatologiche e può diventare il problema principale per molti pazienti. Una delle prime cause di questa relazione è l’uso di farmaci come il cortisone, ma anche l’infiammazione sistemica danneggia le ossa e quindi anche in pazienti che non assumono cortisone si può trovare comunque un danno dello scheletro.”
“La relazione tra osteoporosi e malattie infiammatorie è difficile da trattare perché ci sono pochi farmaci che riescono, curando la malattia infiammatoria, a curare anche l’osteoporosi. I farmaci biologici hanno mostrato di poter ridurre il danno osseo sistemico dell’infiammazione sull’osso. Un’altra strategia è quella di utilizzare una terapia per l’osteoporosi insieme alla terapia per la malattia reumatica ed è una scelta che si è dimostrata estremamente efficace.”
All’ultimo congresso mondiale dell’osteoporosi di Roma è stato presentato uno studio sugli effetti dell’aggiunta di romosozumab in pazienti con osteoporosi severa non risponder alla terapia con denosumab.
“Abbiamo cercato di rispondere a una domanda molto rilevante nel mondo dell’osteoporosi cioè cosa fare quando un paziente in terapia con denosumab fallisce, evento raro perché si tratta di un trattamento molto efficace. Non è facile lo switch da denosumab verso un nuovo farmaco, perché interrompendo il trattamento si rischia un effetto rebound con una veloce perdita di densità ossea.”
“Abbiamo quindi studiato la terapia combinazione con un altro farmaco. Senza interrompere la terapia con denosumab abbiamo aggiunto romosozumab. Si tratta di due farmaci che hanno un effetto completamente diverso sull’osso e la cui combinazione nessuno aveva mai studiato. L’abbiamo esplorata in una coorte di pazienti non molto ampia ed effettivamente l’aumento alla densitometria era marcato e non si vedeva l’effetto rebound. Si tratta di risultati estremamente confortanti che ci danno un’ulteriore opzione terapeutica per i pazienti.”