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Vitamina D e COVID-19, le raccomandazioni del G.I.O.S.E.G.
Il potenziale impatto negativo del deficit di vitamina D sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e sulla prognosi della malattia COVID-19 è stato messo in luce da diversi studi. Un documento redatto da un panel di esperti del G.I.O.S.E.G. aiuta a fare chiarezza al riguardo
La vitamina D è una molecola fondamentale per la salute dell’organismo umano e le sue azioni extra-scheletriche sono ben documentate da tempo. In virtù dei suoi emergenti potenziali effetti sul sistema immunitario innato o acquisito, la vitamina D sta assumendo un crescente interesse anche nell’ambito dell’infezione da SARS-CoV-2 che si è concretizzato con un vivace dibattito, tuttora in corso, nell’ambito della comunità scientifica internazionale.
In particolare le principali questioni all’attenzione di clinici e ricercatori sono il potenziale impatto negativo dell’ipovitaminosi D sull’incidenza dell’infezione e gli effetti sulla prognosi dei pazienti affetti da malattia COVID-19. Il legame tra status vitaminico D e infezione sta emergendo con sempre maggiore forza dai numerosi dati presenti in letteratura. Tuttavia non sempre i risultati sono univoci e concordi, e questo si traduce in una reale difficoltà di interpretazione.
Il tema è estremamente complesso e naturalmente ci vorrà del tempo prima che si arrivi a risultati più definiti e a indicazioni concrete circa un potenziale effetto terapeutico della supplementazione con vitamina D nei pazienti COVID-19. Nell’ottica di circoscrivere la questione in modo da fornire al clinico una “guida ragionata” delle evidenze finora pubblicate, il G.I.O.S.E.G. (Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group) ha redatto una serie di raccomandazioni che sono state pubblicate online e sono consultabili gratuitamente.
Le raccomandazioni costituiscono la base per la stesura di un position paper di recentissima pubblicazione su Endocrine. Secondo il panel di esperti del G.I.O.S.E.G. che hanno redatto il documento, il ruolo principale della vitamina D è quello di garantire alla popolazione ad alto rischio di ipovitaminosi D e di malattia respiratoria in corso di COVID-19, un livello adeguato di vitamina D, in considerazione del beneficio delle azioni protettive sull’osso e immunomodulatorie di questo ormone.
Di seguito pubblichiamo le raccomandazioni contenute nel documento, corredate dal commento del presidente G.I.O.S.E.G, professor Andrea Giustina.
Le indicazioni del documento
Sulla base della revisione dei dati di letteratura finora disponibili, il documento raccomanda quanto segue:
- Tutti i pazienti ai quali sia già stata diagnosticata una condizione di ipovitaminosi D o abbiano in atto trattamenti farmacologici che richiedono supplementi di vitamina D (quali farmaci anti-osteoporotici, steroidei, farmaci anti-epilettici), continuino o inizino ad assumere la vitamina D.
- Gli over 80 assumano (inizino o continuino) supplementi di vitamina D a prescindere dal livello circolante.
- I soggetti over 65 di entrambi i sessi con comorbidità, come diabete o obesità che predispongono all’ipovitaminosi D e al COVID-19 grave, vengano attentamente valutati per il loro profilo di ipovitaminosi D con dosaggio della 25(OH)D; a tutti coloro che presentano livelli inferiori a 20 ng/ml dovrebbero venire somministrati supplementi di vitamina D.
- Il panel suggerisce di prescrivere preferibilmente come supplemento le forme pre-attive per la loro documentata efficacia e sicurezza nella popolazione generale. Si consiglia di usare la vitamina D in forme attive solo per i pazienti con insufficienza epatica o insufficienza renale.
- Si raccomanda che la posologia non superi quella indicata dalle attuali linee guide e note AIFA per il trattamento della ipovitaminosi D; tali raccomandazioni potrebbero non valere per gli obesi che richiedono supplementi maggiori di vitamina D pre-attiva o attiva per raggiungere un adeguato livello circolante.
- Si raccomanda che la somministrazione di vitamina D continui durante tutto il periodo della pandemia. Per gli over 80 in trattamento potrebbe essere utile, ma non indispensabile, verificare i livelli circolanti per un’eventuale correzione posologica, mentre la verifica di tali livelli durante il trattamento in soggetti più giovani è particolarmente raccomandata.
- A oggi non disponiamo di sufficienti evidenze per modificare i protocolli sanitari di terapia ospedaliera del COVID-19 con l’indicazione della somministrazione di vitamina D ai pazienti ricoverati.
- Lo sforzo mondiale, senza precedenti, di vaccinare tutta la popolazione a rischio COVID-19, offrirebbe, secondo il punto di vista del Panel, un’occasione unica di portare all’attenzione tutti i soggetti ai quali servirebbe una supplementazione con vitamina D. Questo approccio potrebbe essere utile per affrontare la doppia questione pandemica, quella COVID-19 e quella del deficit della vitamina, somministrando insieme vitamina D e vaccino anti-COVID-19.
Il commento del professor Andrea Giustina
A cura di Andrea Giustina
Direttore Istituto di Scienze Endocrine e Metaboliche Università Vita-Salute San Raffaele, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
La vitamina D è un ormone con importanti azioni extra-scheletriche tra cui quella immuno-modulatrice. La carenza di vitamina D purtroppo è una condizione a elevata prevalenza, soprattutto nei Paesi Mediterranei come l’Italia in cui (al contrario dei Paesi Scandinavi) il cibo non viene fortificato con vitamina D.
Le motivazioni che hanno spinto la Comunità Scientifica internazionale ad approfondire il tema del rapporto tra vitamina D (VITD) e COVID-19 sono ben espresse nella oramai famosa nostra lettera su BMJ a inizio pandemia. Infatti, vi è una coincidenza che già allora era difficile ritenere casuale tra elevata morbidità e mortalità da COVID-19 e diffusa prevalenza di ipovitaminosi D come in Italia.
Il G.I.O.S.E.G. da tempo attivo con conferenze internazionali e documenti ad hoc nel campo della vitamina D ha chiesto a un panel di esperti di stilare questo documento intanto per analizzare le molte evidenze scientifiche pubblicate negli ultimi 15 mesi su vitamina D e COVID-19 purtroppo su casistiche che variano molto per numero di soggetti studiati, livelli di vitamina D ed esiti. Infine, per dare alcuni indirizzi pratici da mettere a disposizione della Comunità scientifica e degli stakeholder istituzionali su come calare tali evidenze scientifiche nella pratica clinica mancando a oggi chiare linee guida e raccomandazioni su come gestire il rapporto tra vitamina D e COVID-19.
La letteratura esaminata dal panel G.I.O.S.E.G. ha evidenziato come la visione attualmente prevalente sia che carenza e insufficienza vitaminica D definite rispettivamente, come 25(OH) D inferiore a 20 ng/ml e 25(OH)D tra 21-29 ng/ml risultino associate a un rischio più elevato (circa una volta e mezzo) di contrarre l’infezione. Inoltre, nei pazienti portatori di infezione, il valore medio dei livelli di VITD è generalmente inferiore rispetto ai soggetti negativi. Una correlazione tra deficit di vitamina D e gravità delle infezioni da SARS-CoV-2 è riportata soprattutto negli anziani nei quali è predittiva di rischio di ospedalizzazione ed elevata mortalità.
La letteratura disponibile suggerisce inoltre che somministrare un supplemento di vitamina D ai pazienti COVID-19 ospedalizzati potrebbe dare risultati positivi, benché manchino a oggi evidenze certe sull’efficacia degli interventi in “acuto” e quindi a oggi non vi sia indicazione a modificare i protocolli di terapia ospedaliera del COVID-19 con somministrazione di VITD ai pazienti ricoverati.
Invece, il Panel ha ritenuto che il ruolo principale della vitamina D attualmente sia quello di garantire alla popolazione ad alto rischio di ipovitaminosi D e di malattia respiratoria in corso di COVID-19, un livello adeguato di vitamina D.
Le raccomandazioni del panel riguardano:
- pazienti con ipovitaminosi D o con trattamenti che richiedano anche supplementi di vitamina D (farmaci anti-osteoporotici, steroidei, antiepilettici), che dovrebbero continuare o iniziare ad assumere la vitamina D;
- gli over 80 soprattutto se istituzionalizzati in comunità, quali le RSA (gruppo in cui si concentra la maggior parte dei decessi per COVID-19) in cui la vitamina D dovrebbe essere assunta (in forma pre-attiva o in forma attiva se con insufficienza epatica o renale) senza necessità di misurarne i valori ematici;
- i soggetti over 65 di entrambi i sessi a rischio (con comorbidità, come diabete o obesità che predispongono all’ipovitaminosi D e al COVID-19 grave) in cui sarebbe indicato il dosaggio della 25(OH)D e se con ipovitaminosi importante (livelli inferiori a 20 ng/ml) la supplementazione in dosi non superiori a quelle indicate da linee guide e note AIFA con attenzione ai soggetti obesi che richiedono in genere dosaggi maggiori di vitamina D;
- soggetti sottoposti a vaccinazione anti- COVID-19 vista come occasione di far emergere i soggetti ai quali servirebbe il supplemento di vitamina D affrontando efficacemente e simultaneamente la doppia questione pandemica, quella COVID-19 e quella della deficienza di vitamina D.